Control-Mastery Theory

La Control-Mastery Theory

La Control-Mastery Theory (CMT; Gazzillo, 2021; Silberschatz, 2005; Weiss, 1993; Weiss, Sampson & The Mount Zion Psychotherapy Research Group, 1986) è una teoria cognitivo-dinamica di matrice relazionale del funzionamento mentale, della psicopatologia e della psicoterapia elaborata ed empiricamente validata da Joseph Weiss, dal San Francisco Psychotherapy Research Group e dal Control-Mastery Theory Italian Group.

Secondo la Control-Mastery Theory, l’essere umano è sin dalla nascita predisposto a adattarsi alla realtà e a perseguire obiettivi evolutivi sani ed evoluzionisticamente fondati. Adattarsi alla realtà significa per l’essere umano stabilire e mantenere relazioni sufficientemente sicure con le figure di accudimento e costruire un insieme di conoscenze relativamente stabili e coerenti su sé stesso, gli altri, il mondo e gli assunti morali che lo governano. Questo sistema di credenze coscienti e inconsce organizza la comprensione della realtà, cioè fornisce una mappa di come orientarsi nel mondo, plasma la vita emotiva e media la relazione tra motivazione e comportamento.

TRAUMI E CREDENZE PATOGENE

Le credenze di un individuo si formano a partire dalle esperienze di relazione con le figure significative nel contesto di accudimento primario, dal loro esempio e dal loro diretto insegnamento. Le esperienze ripetute e quelle emotivamente rilevanti hanno un ruolo cruciale nella formazione delle credenze e la CMT sottolinea il ruolo delle esperienze traumatiche per la formazione delle credenze nucleari delle patologie psichiche.

Alla base dei problemi psichici vi sarebbero infatti credenze, proprio per questo definite patogene, che nascono dal tentativo di adattarsi a situazioni traumatiche e che associano il perseguimento di obiettivi sani e piacevoli a un pericolo per sé stessi e/o per le persone care. L’individuo sviluppa tali credenze nel tentativo di comprendere come quegli eventi si sono verificati, in che modo possa aver contribuito ad essi e in che modo possa prevenire il ripetersi di simili eventi in futuro.

Le credenze che l’individuo sviluppa nel tentativo di fronteggiare le esperienze traumatiche, soprattutto se queste hanno avuto luogo in età evolutiva, spesso risentono delle peculiarità cognitive, emotive e motivazionali del funzionamento infantile. Per questa ragione, i bambini tendono elaborare letture egocentriche e iper-generalizzate della realità e sono particolarmente vulnerabili a sviluppare sentimenti di responsabilità e colpa anche per problemi o situazioni avverse, nella determinazione dei quali non hanno avuto alcun ruolo.

Sensi di colpa interpersonali

Data l’importanza delle motivazioni prosociali, quali ad esempio l’attaccamento e l’accudimento, la Control-Mastery Theory ha dato particolare attenzione a un’ampia gamma di credenze patogene che alimentano sensi di colpa coscienti e inconsci di natura interpersonale. Il nucleo delle credenze che alimentano i sensi di colpa interpersonali è la convinzione di causare un danno o una sofferenza a una persona cara nel tentativo di perseguire un proprio obiettivo sano, e le caratteristiche specifiche assunte da questo sentimento variano in funzione del tipo di obiettivo il cui perseguimento si crede causi sofferenza. 

Il senso di colpa da separazione/slealtà si basa sulla credenza che diventare indipendenti e differenziarsi dalle persone care rechi loro sofferenza; 

il senso di colpa del sopravvissuto si basa sulla credenza che avere più capacità, qualità, fortuna, successo delle persone care le faccia sentire umiliate e le danneggi;

 il senso di colpa da responsabilità onnipotente deriva dalla credenza di avere il potere e il dovere di rendere felici gli altri e che occuparsi del proprio benessere sia crudele ed egoista; 

il senso di colpa da burdening, deriva dalla credenza che esprimere i propri bisogni implichi appesantire le persone a cui sono rivolte queste richieste; 

infine, l’odio di sé, ossia la colpa associata non a qualcosa che si è commesso o omesso, ma al proprio modo di essere e alla propria esistenza stessa, deriva dalla convinzione di non meritare amore, stima e protezione. L’odio di sé è il precipitato di relazioni primarie trascuranti e abusanti: il bambino, avendo il bisogno di dipendere da genitori percepiti come saggi, forti, giusti, deve attribuire a sé stesso la responsabilità dei maltrattamenti e della trascuratezza subita.

Il Testing e il piano del paziente

Poiché le credenze patogene sono costrittive e determinano sofferenza, inibizioni e sintomi, l’essere umano è profondamente motivato a diventarne consapevole, a disconfermarle e a padroneggiare i traumi che ne sono alla base. La motivazione intrinseca a disconfermare le credenze patogene, a padroneggiare i traumi che ne sono alla base, a risolvere i propri problemi e superare i propri sintomi resta un potente fattore di guarigione, e si esplica per mezzo di quella che è un’attività centrale nelle relazioni emotivamente rilevanti e in psicoterapia: il testing.

Attraverso l’attività di testing, i pazienti cercano attivamente, sebbene generalmente inconsciamente, esperienze che li aiuteranno a disconfermare le loro credenze patogene. Per questa ragione, possiamo definire i test come azioni di prova messe in atto allo scopo di disconfermare una credenza patogena e verificare il livello di sicurezza della relazione terapeutica.

La Control-Mastery Theory delinea due ampie strategie di testing: i test di transfert e i test di capovolgimento da passivo in attivo. Ciascuna strategia può essere perseguita per compiacenza o per ribellione rispetto alla specifica credenza testata. Nel test di transfert, il paziente tenta di valutare se il terapeuta reagirà in modo simile al genitore traumatico. 

Nello specifico, nel test di transfert per compiacenza il paziente si comporta come la credenza patogena prescrive nella speranza che il terapeuta lo dissuada dal farlo; nel test di transfert per ribellione, invece, il paziente sfida la credenza patogena stessa, nella speranza che il terapeuta lo incoraggi a perseguire gli scopi adattivi da essa ostacolati, proteggendolo dai vissuti di colpa e dal bisogno di autopunizione. 

Nel test di capovolgimento da passivo in attivo il paziente assume per sé la funzione del genitore potenzialmente traumatizzante e attribuisce al terapeuta quello del bambino potenzialmente traumatizzabile. In particolare, nei test di capovolgimento da passivo in attivo per compiacenza, i pazienti ripropongono al terapeuta atteggiamenti e/o comportamenti simili a quelli adottati dal genitore o dagli altri significativi, nella relazione con i quali egli ha sviluppato la credenza patogena che ha bisogno di disconfermare, nella speranza che il terapeuta gli mostri come affrontare quelle situazioni senza esserne sopraffatto. Pertanto, attraverso questo tipo di test, il paziente sta implicitamente ricercando un modello di ruolo ed esperienze che gli permettano di acquisire quelle capacità e competenze che gli consentano di affrontare in modo adattivo le esperienze traumatiche da lui subite in passato. 

Attraverso i test di capovolgimento da passivo in attivo per ribellione, il paziente tenta di valutare se il terapeuta riuscirà a beneficiare di un comportamento basato sulla contro-identificazione con i messaggi, gli esempi e gli insegnamenti dei genitori o delle persone significative traumatiche. Se il terapeuta beneficia del suo comportamento, infatti, il paziente potrà sentirsi autorizzato a mettere in discussione il comportamento della figura traumatizzante e le credenze patogene sviluppate a partire da tali esperienze di relazione. In altre parole, nei test da passivo in attivo per ribellione il paziente fornisce al terapeuta quel tipo di esperienze che lui avrebbe voluto ricevere nel rapporto con gli altri significativi, allo scopo di comprendere dalla reazione del terapeuta se ciò che desiderava per sé era legittimo o meno. Facciamo un esempio.

Un paziente che, in conseguenza delle costanti e gravi svalutazioni subite a opera della madre (trauma da stress), sviluppa la credenza patogena di essere sbagliato, inadeguato e privo di valore, può mettere alla prova questa credenza patogena con quattro strategie di testing diverse:

1) descrivendosi o comportandosi come una persona inadeguata e priva di valore, nella speranza che il terapeuta dimostri al paziente di considerarlo come una persona che ha valore, lo aiuti a credere in sé stesso e a riconoscere le proprie capacità (test di transfert per compiacenza);

2) descrivendosi o comportandosi come una persona che crede di avere un grande valore, nella speranza che il terapeuta supporti questa visione di sé (test di transfert per ribellione);

3) svalutando il terapeuta, nella speranza che quest’ultimo non metta in discussione il proprio valore, così da mostrare al paziente che è possibile non mettere in discussione il proprio valore anche se si è vittime di questo tipo di trattamento (test da passivo-in-attivo per compiacenza);

4) mostrandosi attento a valorizzare il terapeuta e a sostenerne l’autostima, nella speranza che lui ne sia sollevato, così da avere la prova che il proprio desiderio di sentirsi valorizzati è sano e legittimo (test da passivo-in-attivo per ribellione).

I contenuti specifici dei test di un paziente sono influenzati dalle esperienze di vita attuali, dalle caratteristiche del terapeuta e della relazione terapeutica e, ovviamente, dagli eventi avversi che ne hanno plasmato l’esperienza e dalle peculiarità delle sue relazioni infantili.

La ricerca empirica ha ripetutamente dimostrato che quando il terapeuta supera i test del paziente, quest’ultimo tende a: (1) sentirsi meno in ansia e meno depresso; (2) essere più coraggioso; (3) avere nuovi insight o comprendersi meglio; (4) coinvolgersi di più nel lavoro terapeutico; (5) lavorare di più per raggiungere i suoi obiettivi. Superando i test del paziente, infatti, il clinico riduce progressivamente la fiducia che il paziente nutre nelle proprie credenze patogene, e così rende meno pericoloso per il paziente il perseguimento dei suoi obiettivi.

Secondo la Control-Mastery Theory, peraltro, i pazienti arrivano in terapia con un piano, per lo più inconscio e più o meno articolato, che vogliono realizzare per stare meglio. Curtis e Silberschatz (2007) hanno elaborato una metodologia affidabile per formulare il piano dei pazienti, il Plan Formulation Method (PFM). Tale formulazione include gli obiettivi sani e adattivi che i pazienti vogliono perseguire, le credenze patogene che vogliono disconfermare, i traumi che vogliono padroneggiare, i modi possibili in cui metteranno alla prova le loro credenze patogene (test), e le cose che vorrebbero comprendere di sé stessi (insight).

Il terapeuta, per essere efficace, deve dunque aiutare il paziente a realizzare il suo piano, cioè deve essere pro-plan. Essere pro-plan significa in altri termini orientare gli interventi e le sue comunicazioni in modo che supportino gli obiettivi adattivi del paziente e lo aiutino a rimuovere gli ostacoli che gli impediscono il loro perseguimento. E, come dimostra la ricerca empirica (vedi Silbershatz, 2005, 2017), quando questo accade, il paziente migliora.

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